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Storia di un contadino italiano in Australia – parte 2: prigioniero in terra australe

by Elena Fortini

Vincenzo ha solo 21 anni quando parte per la Libia. Mai avrebbe pensato che, nei pochi anni successivi, avrebbe attraversato mezzo mondo, passando dapprima per l’Egitto, poi nei campi di concentramento indiani per, infine, raggiungere il misterioso e lontano continente australiano.

Nel gennaio 1944, insieme a qualche migliaio di altri prigionieri italiani, mio zio si imbarca a Bombay per l’Australia. A febbraio giunge nel porto di Melbourne e viene condotto al campo di Murchison, nell’entroterra australiano, per lo smistamento. Dopo la visita medica viene sottoposto ad analisi per la sospetta presenza di tifo, poi smentita dagli accertamenti. Da questo momento in poi verrà identificato con la dicitura PWI (Prisoner of War, Italian, vale a dire “prigioniero di guerra italiano”) 58070.

Il suo viaggio, però, non finisce qui. A Murchison viene decisa la sua destinazione: sarà nell’ancor più remota isola della Tasmania. Nell’aprile del ‘44 giunge nel campo di Brighton, vicino alla capitale Hobart, nel sud-est dello Stato insulare, per l’identificazione. Si tratta del campo centrale della regione, che si dirama poi in ulteriori campi sparsi per tutta l’isola.

Nel maggio 1944 viene trasferito a Burnie, più a nord, e il mese successivo a Smithton, nel nord-ovest dell’isola. Ricoverato per una sospetta appendicite nell’ottobre dello stesso anno, sarà rilasciato qualche giorno dopo senza essere operato, e rimandato al campo. Qui sarà assegnato a un agricoltore locale, Reginald Poke, e inizierà a lavorare come contadino nella sua proprietà agricola a Scotchtown, una località rurale distante circa 6 km dalla cittadina di Smithton. 16.397 sono invece i chilometri che separano Scotchtown dal paese natale di Soncino: una distanza incolmabile oggi, inimmaginabile all’epoca.

Con mia grande sorpresa sono riuscita a contattare i discendenti di Mr. Poke. Alcuni hanno sentito parlare dei prigionieri italiani nei racconti dei rispettivi antenati, altri ricordano di averli visti e conosciuti, durante l’infanzia. In particolare, un nipote di Reginald ricorda Vincenzo come un uomo forte, che spesso si allenava nella fattoria. I prigionieri vivevano in baracche separate nella proprietà, e un’altra nipote ricorda che da bambina, negli anni ’60 e ’70, vi entrava per gioco e che le sembravano sufficientemente spaziose per essere adibite ad abitazioni. Dopo la partenza degli italiani queste costruzioni vennero destinate a baracche degli attrezzi, e successivamente demolite. In generale, i soldati italiani hanno lasciato un bel ricordo alle famiglie locali: sulla sua lettera di dimissione si può leggere che è stato un bravo prigioniero.

Nel marzo del ‘46 Vincenzo viene finalmente rilasciato e torna nell’Australia occidentale, a Loveday, da dove il 3 dicembre dello stesso anno sarà rimpatriato sulla nave neozelandese Rangitata diretta a Napoli. Sbarcherà infine nella città partenopea il 31 dicembre 1946, nello stesso porto da cui era partito otto anni prima. Una leggenda di famiglia vuole che, nel periodo trascorso in Australia, mio zio si sia innamorato di una donna del posto e che volesse perciò rimanere e sposarsi. Non sappiamo se sia tornato per rispettare la convenzione internazionale sui prigionieri di guerra, che voleva che fossero tutti rimpatriati una volta terminato il conflitto, o per sua decisione, conscio che la sua famiglia lo aspettava e aveva bisogno di lui. Gli anni della guerra sono stati duri, infatti, anche nello sperduto paesino di campagna che per Vincenzo era ormai solo un lontano e caro ricordo. Con il figlio primogenito in Australia, il secondogenito, Giulio, anch’egli prigioniero degli Alleati in Albania, il lavoro nei campi e nelle stalle era affidato ai restanti membri della famiglia: il padre Bortolo, la madre Genoveffa, le sorelle Gina, Maria, Cila e Carla e il fratello minore, Miro, che allo scoppio del conflitto aveva solo sei anni, e che Vincenzo ricorda nella lettera inviata dall’India e mai ricevuta dalla famiglia come il “piccolino” di casa.

Ambrogi Famiglia : late 1940s

Back row: Vincenzo second from left. Front row: Mama Genoveffa on far right (photo courtesy of Elena Fortini)

Si racconta che, dopo il suo ritorno, ogni volta che mio zio parlava di quanto aveva visto in guerra veniva preso per pazzo. Metteva in guardia sugli effetti nefasti delle droghe quando la maggior parte dei compaesani non sapeva nemmeno cosa fosse uno stupefacente. Parlava di tutto ciò che aveva visto, della convivenza di molteplici religioni e confessioni che nella cattolicissima Italia del tempo era solo un lontano miraggio. Portava sei anni di prigionia sulle spalle che l’avevano segnato profondamente, e non solo sul viso che il rovente sole australiano aveva bruciato per sempre: avvertiva il bisogno di parlarne, ma si sentiva incompreso. Forse per questo poi si chiuse in sé stesso e smise di raccontare, lasciando correre anche le domande curiose dei nipoti che, anni dopo, gli avrebbero chiesto della sua esperienza in guerra: ne parlava solo con i commilitoni, uomini che, come lui, avevano lasciato tutto alle spalle e che vivevano gli anni della guerra come un voraginoso e incolmabile vuoto.

Vincenzo Ambrogi 1970s standing at left (photo courtesy of Elena Fortini)

Al funerale di sua madre, Vincenzo chiese alla famiglia di non lasciarlo mai più solo. Spero che questa mia ricerca renda giustizia alla sua storia e al suo ricordo. Non ho avuto il piacere di incontrare lo zio Vincenzo, che ci ha lasciati ben prima che io nascessi ma, dopo le tante ore trascorse a ripercorrere il suo passato, posso forse dire di conoscerlo un po’ anch’io.

Elena Fortini

Storia di un contadino italiano in Australia – parte 1: la cattura e l’inizio del viaggio

by Elena Fortini

Nella maggior parte dei libri di storia le migliaia di uomini catturati e fatti prigionieri durante i due conflitti mondiali che hanno segnato il Secolo breve figurano solo come numeri, una perdita inevitabile nell’economia di guerra. Eppure, si tratta di una parte non trascurabile del nostro passato: ogni uomo partito al fronte vi ha portato parte di sé, una storia nella Storia che non possiamo permetterci di dimenticare. Per questa ragione voglio raccontare la prigionia di mio zio Vincenzo, un modesto contadino cremonese che si è trovato a coltivare le immense distese australiane.

Vincenzo Ambrogio: Uncle of Elena Fortini (photo courtesy of Elena Fortini)

Vincenzo Ambrogi nasce il 5 settembre 1917 a Soncino, un piccolo borgo medievale in provincia di Cremona. Primo di 7 figli tra cui mia nonna Rosa, detta Carla, il 2 settembre 1938 viene chiamato alle armi in qualità di caporale nel 45° Reggimento Artiglieria Divisionale “Cirene”. Dopo un breve passaggio a Bari, l’11 settembre a Napoli si imbarca per la Libia; due giorni dopo sarà a Bengasi.

Map of Western Desert Campaign 1941/42 (https://www.wikiwand.com/en/Operation_Compass)

A seguito dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940 il territorio libico è dichiarato in Stato di guerra. A settembre la Divisione partecipa alla prima offensiva italiana in Egitto, ma la controffensiva britannica non si fa attendere: dopo una serie di attacchi che provocano importanti perdite, a dicembre la Divisione è costretta a ripiegare entro la cinta fortificata di Bardia, vera roccaforte italiana in Libia. L’esercito italiano non resisterà a lungo: il 5 gennaio 1941 Vincenzo è catturato, insieme a migliaia di altri soldati, dall’esercito inglese, in quella che è passata alla storia come la catastrofica sconfitta di Bardia.

6th January 1941 BARDIA. A GROUP OF ITALIAN PRISONERS BEING BROUGHT IN BY THE A.I.F. DURING THE MOPPING UP OPERATIONS IN THE SURROUNDING HOLES. (AWM Image 004904 NEGATIVE BY F. HURLEY).

Da qui, dopo chilometri e chilometri percorsi a piedi nel deserto nordafricano, raggiunge il campo di concentramento 309, in Egitto, e successivamente il campo 308, entrambi nell’area di Alessandria. Da alcune relazioni stilate da inviati della Croce Rossa Internazionale si evince che la situazione dei prigionieri non era delle più terribili: tolto che la maggior parte dormiva per terra, direttamente sulla sabbia, a causa della scarsità di tende a fronte dell’arrivo massiccio di uomini (successivamente verranno costruite delle baracche dai prigionieri stessi), a ciascuno venivano date in dotazione due coperte per proteggersi dal freddo; i prigionieri indossavano la propria divisa e venivano consegnate scarpe nuove a chiunque ne avesse bisogno. Il cibo, preparato dagli italiani stessi, era razionato in quantità sufficienti, e durante le lunghe giornate d’attesa sono documentate persino partite di calcio. Sul campo era presente un cappellano militare per l’assistenza religiosa, mancavano però libri da leggere e i prigionieri lamentavano di non ricevere notizie per posta dai propri famigliari.

La prossima tappa del viaggio di Vincenzo sarà Suez, il vero polo di smistamento: qui i prigionieri saranno divisi e inviati nelle più svariate colonie inglesi; è il vero inizio della traversata che porterà mio zio all’altro capo del mondo. Ogni prigioniero segue sorti diverse: c’è chi viene inviato nel Regno Unito, chi nel Medio Oriente, chi ancora in Sudafrica. Il 30 novembre 1941 Vincenzo si imbarca per l’India. Arriverà a Bombay il 16 dicembre e sarà internato nei campi 9 e 12, entrambi nell’area di Bhopal, nell’India nord-occidentale. In una cartolina compilata per la Croce Rossa Internazionale scrive di essere stato catturato illeso e di stare bene.

Click: Arrival of Italian prisoners in Bombay

Il 20 aprile 1942 scrive la seguente lettera indirizzata alla famiglia e mai giunta a destinazione:

“Carissimi genitori, dopo lunga assenza di vostre notizie, non sapendo il perché di tutto questo mentre invece ho ricevuto notizie da Alberto, il cugino della cascina Fornace, alla cui cara lettera tuttavia non posso rispondere, la quale mi ha molto rallegrato sentendo le sue parole di giovane militare, e il rientro di Giulio, mio fratello, in patria dalla sua prigionia. Miei cari voi, sapete che non posso rispondere a tutti coloro che mi scrivono, perciò lascio a voi i miei più graditi saluti con una stretta di mano di vero cugino affettuoso. Ma appena potrò […] a tutti darò un mio saluto e un invito di arrivederci presto. Miei cari, da che mi trovo nelle Indie ho ricevuto 4 lettere, una del cugino e tre di Gina [la maggiore delle sorelle]. Desidero notizie dai dintorni e dai cugini. Non pensate male che tutto passa e ringraziamo sempre Iddio che tenga sempre la salute e un dì ci rivedremo.
Termino rilasciandovi i miei più sinceri saluti a tutta l’intera famiglia, e un bacio all’ultimo piccolino e Babbo e Mamma. Saluti parenti e riconoscenti da sempre, Vincenzo”

Camp 9 India: General View of Camp, Italians packed up ready to move to another camp, models of planes made by the Italians (ICRC VP-HIST-03470-07, VP-HIST- 03470-12, VP-HIST- 03470-30A)

Sappiamo però che il periodo in India è stato probabilmente il più difficile dell’intera prigionia: il clima duro, la scarsità di cibo e le disastrose condizioni igieniche dei campi indiani, unitamente al pericolo causato dagli insetti portatori di malaria, facevano sì che molti prigionieri si ammalassero, anche gravemente. In particolare, i campi dell’area lagunare di Bhopal, dove si trovava mio zio, erano noti per l’aria estremamente malsana. Lo stesso Vincenzo trascorse più di due mesi nell’ospedale del campo, e subì un’operazione. La situazione precaria e la persistente incertezza sul futuro spingevano molti a tentare il gesto estremo.

Ma la storia di Vincenzo è diversa. Nel gennaio 1944 lascia infatti il subcontinente indiano e viene imbarcato sulla nave Mariposa: direzione Melbourne, Australia.

Continua…

1944-03-28. AERIAL PORT BOW VIEW OF THE AMERICAN TRANSPORT SS MARIPOSA WHICH MADE FIVE TROOP CARRYING VOYAGES TO AUSTRALIA BETWEEN 1942 AND 1944. (NAVAL HISTORICAL COLLECTION) (AWM Image 303592)