
In Memoriam- Cesare Sottocorno
(photo courtesy of Cesare Sottocorno)
Quelli che sono nati dopo la fine del secondo conflitto mondiale hanno vissuto e ancora vivono in un periodo di pace, il più lungo, dicono gli storici, che abbia attraversato il vecchio continente. Il merito, sostengono sempre gli studiosi, è anche di quel documento noto come il Manifesto di Ventotene, Per un’Europa libera e unita, scritto da Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann ed Eugenio Colorni, al confino sull’isola dove scontavano la condanna perché socialmente pericolosi. Non è questa la sede per ripercorrere le vicende che hanno portato alla creazione dell’Unione Europea una realtà politica da tenere cara nonostante le difficoltà sorte tra i diversi stati e in situazioni come nel caso della recente pandemia.

WW2 Memorial Rivolta d’Adda (photo courtesy of Cesare Sottocorno)
Non possiamo dire che nel nostro Paese quella pace abbia significato tranquillità e che gli anni passati siano stati sereni. Ricordiamo i contrasti sociali, il terrorismo, le vittime delle mafie, le povertà vecchie e nuove, le convivenze difficili e problematiche con le diversità di lingua, di cultura, di religione o di genere. Problemi che esigerebbero lunghe analisi, ma pur sempre lontani dalle distruzioni, dalla fame, dalle migliaia di morti che ogni guerra porta con sé.
Occorre peraltro affermare con forza che, insieme agli intellettuali illuminati e a quelli fra i politici che hanno garantito la pace e un sostanziale benessere, tantissimi cittadini, come ha affermato il presidente Mattarella, si sono dimostrati, nel tempo, consapevoli di appartenere a una comunità capace di risollevarsi dalle avversità e di rinnovarsi nello spirito della democrazia: donne e uomini, contadini e operai, casalinghe, infermiere, medici, insegnanti, giudici, operatori del commercio, impiegati… e tutti ne abbiamo conosciuti.
Se per fortuna la guerra è lontana, non possiamo dimenticarla. Non possiamo dimenticare i soldati che hanno lasciato le loro vite in battaglia, tra le trincee, nei campi di concentramento e nelle gelide steppe di un’Europa in fiamme, per ordini assurdi di politici aggressivi e di comandanti inetti, oppure sulle montagne a difesa della libertà.
I loro nomi sono scritti sul marmo, in ogni località, sulle vie e sulle piazze, perché non siano dimenticati. Li hanno letti, per tanti anni, a voce alta quelli del nostro paese, e li ho letti anch’io, da solo, dopo la messa dell’aurora, qualche mattina fa, il 25 aprile, l’anniversario della liberazione che vogliamo continuare a ricordare, inizio e simbolo della riconquistata libertà.


WW2 Memorial Rivolta d’Adda (photo courtesy of Cesare Sottocorno)
Tra questi un nome mi è familiare perché è stato dato anche a me. Soldato di leva, della classe 1920. Data di nascita, come è nel mio caso, incerta: il 31 maggio o il 1° giugno. Arruolato in anticipo e chiamato alle armi il 5 febbraio 1940 a Livorno. Sul foglio distrettuale è annotato: contadino, di religione cattolica, abitante a Rivolta d’Adda in via Paladino n. 44, occhi castani e così anche i capelli dalla forma ondulata, mento diritto, colorito roseo, dentatura sana e una doppia cicatrice, una al labbro superiore e una alla fronte. Sapeva leggere e scrivere, aveva frequentato le scuole fino alla quarta elementare e non era ammogliato.
Allo scoppio delle ostilità, il 10 giugno 1940, è partito, con il 7° Reggimento Artiglieria, per la Libia, territorio allora italiano dichiarato in stato di guerra. Sei mesi più tardi, il 5 gennaio 1941, secondo le fonti italiane, è stato considerato disperso durante le operazioni militari in Cirenaica. Lo stesso giorno, dicono i documenti inglesi, è stato catturato a Bardia e dichiarato prigioniero di guerra.
In una valigia di cartone ho trovato le sue lettere. Il giovane soldato racconta ai genitori il suo viaggio di otto giorni con il mare in burrasca. Dice a suo padre d’essere in compagnia con altri cinque di Rivolta e che la terra che lui ha conquistato è poco di bello, è tutta sabbia, la gente è mezza nuda, ci sono bestie che non conosce, non si capisce niente, dorme sulla paglia, di giorno fa molto caldo e di notte molto freddo. Come tutti i militari viene vaccinato e la febbre a quaranta lo costringe a letto. Mangia pane e cipolle perché il ghibli, il vento del deserto, solleva la sabbia che finisce nella minestra. Scrive alla mamma che essere malato sotto le armi è una vita da martire perché lei è lontana: per la cura e per tutto il resto bisogna fare da solo. La informa d’essere guarito, di aver dovuto tagliare i capelli perché nella sua tenda c’erano i pidocchi, ma anche di fare l’allenamento e di andare ogni festa a giocare a calcio in città. Aspetta con ansia le loro lettere e quando non arrivano si rattrista e piange.
Trova conforto nell’amicizia e smentisce chi ha detto che sono in pericolo dal momento che sono al sicuro. Non nasconde la sua felicità a suo fratello che un giorno si è trovato con undici militari di Rivolta e che si sono messi tutti a piangere come bambini. Il suo paese è sempre nei suoi pensieri. Ride dopo aver saputo da suo fratello di una recita all’oratorio in cui il protagonista rimane in mutande e la sera di Sant’Alberto, guardando il cielo, gli è sembrato di vedere, anche nel deserto, i fuochi artificiali. Per far passare la malinconia si rivolge al nonno e gli dice che è un ortolano da poco perché raccoglie solo le zucche e le cornette e gli domanda se la sua bicicletta è ancora appesa al soffitto.
I libri di Storia narrano che dal dicembre 1940 al gennaio 1941 le truppe del generale Geroge J. O’Connor sferrarono un’offensiva di sorpresa e il giorno 5 conquistarono la guarnigione di Bardia, costituita da 45.000 soldati. Le truppe italiane si arresero e il generale Annibale Bergonzoli che aveva affermato: a Bardia siamo e ci resteremo, fuggì e raggiunse a piedi Tobruk che distava 120 chilometri.
Il nostro soldato fa sapere alla mamma che ora si trova prigioniero e che sta bene e le chiede di dire qualche Ave Maria alla Madonna di farlo stare sano.
Il 13 ottobre 1941 viene trasferito a Sydney in Australia e internato a Cowra. Ricoverato all’ospedale militare del campo di concentramento, muore il 22 gennaio 1942, alle undici di sera, per un ascesso al polmone destro.
In una lettera della Segreteria di Stato del Vaticano indirizzata alla Pregiatissima Signora ***
si precisava che il *** morì di dissenteria ed è stato sepolto nel cimitero cattolico di Sidney e la lapide porta l’iscrizione alla memoria di *** il primo prigioniero italiano morto in Australia all’età di 21 anni.

Grave of Cesare Sottocorno in Rockwood Cemetery New South Wales Australia
(photo courtesy of Cesare Sottocorno)
Il fratello, al quale spesso raccontava le difficoltà della vita militare e che, come alpino del reparto sanità, stava per partire per la Russia, ottiene, grazie anche al parroco, un anno di licenza per stare vicino ai genitori.
A guerra finita, il 27 novembre 1947, il professor Lambert Yonna, medico dell’Ospedale Militare racconta che il caro e simpatico giovane venne operato il 13 gennaio, dopo aver sentito il parere di Sir Charles Blackburn, un rinomato specialista per tali malattie. Il soldato, invece di reagire per il meglio cominciò a declinare e, ricevuti gli onori militari e i Sacramenti, rese la sua giovane anima a Dio, mentre mi serrava la mano e cercava di parlarmi.
Cesare Sottocorno
Com’è triste questa storia. La povera mamma. Ma lui era solo uno dei tanti. Grazie per averla condiviso, Cesare. Suppongo che sia un vosto parente, un antenato.
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Si Christine, Cesare the writer of the article is the nephew. Cesare was named for his zio.
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