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Above Featured Photo: Gianni Senici Durante il servizio militare in Libia (1936-1938) Lui è quello coi calzoni bianchi. Era addetto alla mensa ufficiali (photo courtesy of Fabrizio Senici)
Below is an extract from the book P.O.W. No. 48664 Prisoner of War written by Fabrizio Senici. Disponible su / Available on: AMAZON and IBS LIBRI
Part 3…

Usciamo in fila indiana con le mani sopra la testa e gli occhi accecati dal sole.
Tengo lo sguardo basso e ancora una volta mi viene da ghignare per quei miei calzoni bianchi che abbagliano nel sole di mezzogiorno.
Non facciamo che pochi passi. Di fronte ci troviamo i fucili automatici dei soldati australiani. Tengo bassa la testa, ma alzo lo sguardo per vedere che cosa succede. Il sergente si fa avanti per primo tenendo le mani bene alzate sopra la testa e dichiara la volontà di arrendersi. Parla in italiano, ma lo capiscono ugualmente, come lui capisce i gesti che gli fa il suo parigrado. Il sottufficiale australiano tiene il suo fucile ad altezza d’uomo e con quello indica la via.
Il sergente si incammina per primo e ci parla a bassa voce: «State calmi e non fate monate» ma un colpo nel costato gli fa capire che deve stare zitto. Per un piccoletto tutto scuro di carnagione le parole del sergente non servono: esce dalla fila e inizia a scappare. Ci giriamo tutti giusto in tempo per vedere un australiano che prende la mira e lo centra in testa. Credo che morirò anch’io. Anzi ne sono sicuro. Mi vengono in mente le parole del colonnello: “Pensa a portare a casa la pelle, giovanotto, che qui siamo tutti come morti che camminano” e in effetti sembriamo una fila di morti viventi.
Ci spingono con le canne dei fucili verso un primo concentramento, in uno slargo dove mi rendo conto che siamo migliaia. Non ho mai visto tanta gente insieme così sporca e cenciosa, stremata, e soprattutto triste. Intorno a me ci sono feriti leggeri e gravi. Tutti abbiamo lo sguardo perso nel niente, incapaci di reazione. Ma quello che mi fa ancora più paura è non capire una parola di quello che dicono. Gli australiani non parlano, non ordinano. Urlano.
Mi metto in coda al sergente e dietro di me si mette il bresciano. «Come ti chiami?» riesco a dirgli a quello dietro, e poi ancora: «Sèt de Brésa?».[sei di Brescia?]
«Mi chiamo Rossetti Angelo» mi risponde lui «bresciano di Castelmella».
Mi vien da piangere dalla gioia. Poi tiro la giacca al sergente: «Sergente, come vi chiamate?» gli do del voi per rispetto al grado. Lui si gira appena un po’: «Bortolotti Luigi* e sono friulano, e tu?».
«Senici Giovanni della sessantasettesima, ma voi mi potete chiamare Gianni».
Allora anche lui mi dice: «E tu chiamami Luigi e smettila di darmi del voi. Da adesso in poi siamo tutti uguali».

23rd January 1941 TOBRUK – ITALIAN PRISONERS LEAVING THE TOWN ON FOOT. (AWM Image 005604 NEGATIVE BY F. HURLEY).
*Fabrizio uses the name of Luigi Bortolotti as he also was captured at Tobruk 21 January 1941. Fabrizio would like to think that Luigi and Giovanni’s paths crossed during the chaos of Tobruk. Click below to read the experiences of Luigi Bortolotti: From Tobruk to Clare.