Feature Photo Above: Gianni Senici, Durante il servizio militare in Libia (1936-1938) (photo courtesy of Fabrizio Senici)
Below is an extract from the book P.O.W. No. 48664 Prisoner of War written by Fabrizio Senici. Disponible su / Available on: AMAZON and IBS LIBRI
Part 2…

Italian Prisoners of War at Tobruk (AWM Image P10989.002 Photographer: Cartledge, Bryan Hammersley)
Siamo dentro, al riparo. Buio, paura e silenzio: penso a come devono essere spessi questi muri per chiudere fuori tutto quel casino.
Paura, buio, silenzio: nessuno di noi ha il coraggio di parlare. Anche il sergente sta zitto. Qualche colpo di tosse, qualcuno tira su con il naso, ognuno ascolta solo il bum-bum del suo cuore. Silenzio, paura e buio: piano piano i miei occhi si abituano alla poca luce che filtra dalle feritoie.
Faccio la conta di quanti siamo, cerco qualcuno che conosco, ma non conosco proprio nessuno. Solo che mi è sembrato che uno parlasse bresciano e almeno questo mi fa sentire meno solo.
Il sergente sa che tutti ci aspettiamo da lui una decisione. Siamo tagliati fuori da qualsiasi contatto e spetta a lui decidere della nostra sorte. Mi guardo intorno mentre la polvere gioca e balla nei fasci di luce delle feritoie e nella nostra puzza di paura. Il mio sguardo incontra gli occhi del sergente che sembrano non vedermi, mi passano oltre. Ostia. Siamo tutti gnari [ragazzi] di poco più di vent’anni, spauriti, gente che fino all’anno prima faceva il contadino, l’operaio, il magüt [il carpentiere] e ora è solo carne da macello. Quando inizia a parlare capisco che il sergente è un uomo buono.
«Ragazzi, qui è finita, non c’è più niente da fare» dice e la sua voce mi fa capire tutta la sua stanchezza.
«Che cosa facciamo, sergente?» chiede una voce.
«Non lo so, sacramento, non lo so proprio» risponde il sergente. E poi continuando: «In quanti siamo qui dentro? Dài fioi, contiamoci».
Allora mi faccio forza e inizio io: «Uno» dico, e poi altre voci: «due, tre, quattro, cinque, sei, sette. Dov’è il bambino? Dov’è Mario?» chiede
qualcuno in veneto. Non so chi sia questo “bambino”, questo Mario, ma posso immaginare che sia il più giovane di quel gruppo.
«Non l’ho più visto da un po’» dice un altro veneto, da questo capisco che sono tre che si conoscono, magari dei compaesani.
«Allora in quanti semo?» continua il sergente.
«In sette, sergente, qui dentro siamo in sette» risponde pronto il caporale.
«Chi cazzo è che sta piangendo?» la voce del sergente adesso non è più così buona: «Dài che siamo uomini del Duce, ostia!».
Sono stanco morto. Da tre giorni scappo come un topo da un rifugio all’altro e mangiare non se ne parla, figurarsi il bere. Mi lascio scivolare lungo il muro e quando il mio sedere tocca terra mi sento come un sacco svuotato e penso che potrei anche morire così.
Guardo il sergente. Tutti guardiamo il sergente. C’è più luce adesso che gli occhi si sono abituati. Lui si toglie l’elmetto, si asciuga il sudore con il dorso della mano lasciandosi una striscia nera sulla fronte. Ci squadra a uno a uno. Poi parla. Con voce forte e chiara, an che lui è veneto, o trentino: «Ascoltatemi bene tutti, qui non c’è più un cazzo da fare. Da ieri gli ufficiali non rispondono e secondo me se la sono già svignata perciò se non vogliamo crepare, e io non vi voglio sulla coscienza, non ci resta che arrenderci».
Silenzio.
«Però, quando usciamo da qui, che nessuno si metta in testa di fare l’eroe».
«Che cosa dobbiamo fare sergente?» chiede il bresciano.
«Usciamo da qui con le mani sopra la testa. Lasciate qui le armi» risponde lui.
«Qualcuno sa l’inglese?» chiede una voce.
«Che cosa ci faranno, sergente?» chiede un’altra.
Adesso tutti prendiamo il coraggio di parlare e sembra un pollaio.
«State zitti tutti» urla il sergente, ma poi si calma.
«Non lo so» dice sconsolato «non lo so!».
Detto questo, si fa largo nello spazio angusto del bunker, mette mano alla pesante maniglia in ferro e si decide a uscire.
«Dài andiamo fora dai cojon, stiamo uniti, proviamo a stare tutti insieme».
«Padre nostro che sei nei cieli…» qualcuno sta pregando a mezza voce.
«Chi cazzo è che prega, ostia, non è il momento di pregare» urla di nuovo il sergente e aggiunge: «Dài fuori di qui. FUORI!».

23rd January 1941 TOBRUK – THE DEFENCE POSITION ON THE ROAD APPROACHING TOBRUK. NOTE WIRE, CONCRETE PILLBOX & THE ANTI TANK GUN THAT WAS RESPONSIBLE FOR THE DESTRUCTION OF THE Y.M.C.A. CAR. (NEGATIVE BY F. HURLEY).