Above Featured Photo: Gianni Senici 1985. Aged 69 years.
It is a privilege to honour the journey of Giovanni Senici, as recreated by his son Fabrizio Senici in his book P.O.W. No. 48664 Prisoner of War. Fabrizio has researched extensively his father’s story which included a visit to Australia in 2017, to walk in his father’s footsteps. Disponible su / Available on: AMAZON and IBS LIBRI

Part 1…

Non riesco a credere che sono ancora vivo. Mi appoggio al muro, chiudo gli occhi e cerco con la mano la mia piastrina di riconoscimento. Mi dà sicurezza quel pezzo di ferro con su il mio nome. Se dovessi morire, penso, almeno sanno chi sono.
Sì, perché qui si aspetta solo di morire. Certo, se mi avessero detto che la guerra era questa, mica sarei partito fischiettando da Concesio quando mi hanno richiamato il 1° maggio.
Ho in mente questa cosa da stamattina, quando per un momento le bombe hanno smesso di fischiarmi sopra la testa. È stata dura perché sono due notti che ci bombardano. Da terra, dal mare e dal cielo. Sembra la grandinata del 1936. Una grandine così a Brescia non l’avevano mai vista. I chicchi erano grossi come uova e hanno spaccato su tutto: tetti, carri, le automobili, i vetri delle case. Ecco, le bombe degli inglesi oggi hanno fatto quella stessa roba lì, solo che i buchi sono molto più grandi.
Sono due giorni che me ne sto rintanato nella mensa ufficiali. E chi ha più avuto il coraggio di mettere fuori il naso! Sono un cameriere io, mica uno che spara. E per fortuna che non mi sono più mosso da qui, se no addio Gianni, e chissà perché rido mentre sento gli areoplani che volano bassi su Tobruk. Sarà la paura.
È mattino presto, quasi l’alba. Spio fuori dai sacchi che abbiamo messo da dieci giorni fuori dalle finestre della sala mensa. I caporioni lo sapevano da un bel po’ che saremmo stati attaccati, ma si sono guardati bene dal dircelo.
E gli ufficiali allora? Ah, quelli poi sono tutti impazziti. Qui non si capisce più niente di chi comanda e di chi non comanda. Prima ti danno un ordine, poi te ne danno un altro e intanto giù bombe. Non ho ancora finito di pensare a questa cosa che entra di corsa un alto ufficiale. Riconosco che è un colonnello dalla torretta con le tre stelle d’oro che porta sulla divisa. È tutto impolverato e perde sangue da un braccio.
Sono da solo qui dentro, e non ci dovrei stare. Che faccio? Lo saluto o non lo saluto? Poi scatto sull’attenti: «Soldato semplice addetto alla mensa ufficiali Senici Giovanni, 67a divisione Sirte» dico, e resto lì aspettando un ordine di “riposo”, ma quello passa fuori che sembra non vedermi nemmeno, allora mi rilasso e gli dico: «Sta bene, signor colonnello?».
Lui si gira, si tocca il braccio e sorridendo senza guardarmi mi dice: «Stavo meglio prima. Comunque non è niente, soldato. Grazie».
Ostia! Mi sorprende di più quel “grazie” che non trovare un po’ di acqua qui a Tobruk, e allora gli rispondo: «Prego, signor colonnello» ma in verità avrei voluto chiedergli «Che facciamo?».
E lui fa una cosa che non dimenticherò. Mi mette il braccio sano sulla spalla e mi dice: «Pensa a portare a casa la pelle, giovanotto, che qui siamo tutti come morti che camminano» e così dicendo se ne va: apre la porta delle cucine ed esce come se niente fosse, aggiustandosi l’elmetto sulla testa.
Volevo dirgli di stare attento, ma mi rimetto dietro i sacchi e lo vedo, testa alta e petto in fuori, attraversare la piazza dove ancora resiste il monumento di Mussolini con la scritta VINCERE.
Guardo quel colonnello gentile che mi ha detto “grazie” e un momento dopo non c’è più. Una granata li ha disintegrati insieme, lui e il monumento di Mussolini.
D’istinto mi tiro indietro. Ho le orecchie che fischiano per il gran botto e il cuore che batte forte in gola. Mi viene da piangere tanta è la paura. Me lo diceva sempre mio padre che noi soldati siamo solo carne da macello e che i governi sono i macellai. Non gli volevo credere, l’era semper cioc. [era sempre unbriaco]
Mi siedo su una seggiola e accendo una Milit. Tiro lunghe boccate che sentono proprio di merda e bruciano la gola e mi ricordo che ho sete.
Acqua dai rubinetti non ne viene, gli inglesi hanno bombardato per prima cosa i nostri pozzi. Allora mi attacco a una bottiglia di vino spumante mezza vuota, lì da chissà quanto.
Adesso qui dentro, in questa cucina, è tutto calmo. Fuori c’è la guerra: scoppi, boati, urla, i cingolati che fanno un fracasso della madonna, ma qui dentro c’è una pace che si sta quasi bene. Mi fumo la mia sigaretta fino a scottarmi le dita e finalmente mi decido ad alzare il culo dalla seggiola.
Dài, forza, mi dico che l’ultima sigaretta l’ho fumata e poi penso che morirò come quel colonnello. Torno a guardare fuori dai sacchi e vedo un gruppo che corre rasente il muro del palazzo ad angolo e allora vado: mi affaccio fuori dalle cucine e prendo tutto il coraggio che ho per uscire fuori allo scoperto.
Davanti a tutti c’è un sergente che grida forte per farsi sentire sopra gli scoppi, la polvere e la gran confusione. Corro con loro con le mie braghe bianche da cameriere. Capisco che faccio anche un po’ ridere.
Tutti gridano tutto:
«Corri, corri!».
«Non fermarti!».
«Caporale, raduna i tuoi!».
«Dài, dài veloci, veloci, madonna!».
«Tenete giù la testa, tenete giù la testa!».
«Oh sergente, sono da tutte le parti questi inglesi di merda!».
Ci fermiamo un momento. Al riparo di una casa sventrata. Giro lo sguardo sui miei compagni, ma non ne conosco nessuno. Per forza mi dico, a Tobruk saremo in ventimila.
«Telefonista, chiama il comando, chiedi rinforzi!».
«Comando, comando, qui è la sessantasettesima… comando, comando… non rispondono, sergente!».
«Ma dov’è il 6° con i 50 millimetri, dove cazzo sono?».
«Dài, via di qui, non c’è più niente da fare!».
«Dài via di lì, venite via!».
«State giù, state giù!».
«Dài tutti dentro qui, al riparo, al riparo!».
Sapevo che la città era piena di bunker che sarebbero serviti proprio in caso di ultima, estrema difesa. Quelli davanti aprono con fatica la pesante porta in metallo che non vuole saperne di cedere sotto le spallate disperate dei primi della fila. Finalmente entriamo. C’è puzza di cantina ammuffita.
«Sergente, non si vede una madonna qui dentro».
«Caporale mettiti allo spioncino».
«Oh sergente fuori è pieno di inglesi».
«Caporale, non sono inglesi sono australiani».
«Peggio ancora, al corso ci hanno spiegato che questi sono come delle bestie!».

23rd January 1941 TOBRUK – LOOKING ALONG THE PIAZZA BENITO MUSSOLINI, AFTER THE ENTRANCE OF THE BRITISH FORCES. (AWM Image 005416 NEGATIVE BY F. HURLEY).